martedì 3 febbraio 2015

Lo schizzo del mercoledì




LA PRIMA NEVE
di carlozanzi

Sto per morire. Lo sento. I medici dicono di no ma la morte ha un verso che solo chi muore avverte. E quando non sono semicosciente da farmaci, o immerso nel dolore da non poter far altro che invocare la fine, quando mi trovo nello stato di adesso, sostanzialmente bene, moderatamente felice come chi si salva da un naufragio ma sa che presto ne arriverà un altro, ecco, quando sono in questo stato provo una profonda delusione.
Guardo oltre i vetri. Nevica. Neve leggera e fitta, abbondante, che trova terreno fertile, un fondo gelato che non la fa sciogliere. Una neve che, se andrà avanti così, s’accumulerà. E la neve mi porta alle grandi delusioni della mia infanzia: il focoso entusiasmo della novità, i sogni di gloria, la preparazione, l’azione, l’inconveniente, la delusione, il pianto, la diffidenza verso una vita che non mantiene le promesse.
Il ricordo è chiaro come questi fiocchi: un grande prato a non più di cinquecento metri da casa, neve, un paio di sci di legno pesanti, sporchi, ragnatele negli attacchi arrugginiti, bastoni di legno lunghi, scomodi, attrezzi antebellici recuperati con fatica sulla mensola di una cantina buia, che sa di piscia di gatti. Portavo pantaloni sopra il ginocchio (sempre, anche d’inverno, sino alla terza media), scarponcini non adatti a quegli attacchi (probabilmente attacchi a ganascia Luggi combinati con leva Kandahar), calze lunghe, una giacca a vento abbondante, cappello di lana con ponpon, guanti di lana. Sci in spalla, avrò avuto undici anni, andavo con i miei fratelli sul prato, cercavo di agganciare gli sci in qualche modo provvisorio, imitavo sciatori ammirati alla tele, ero costretto a spingere anche in discese lievi, prendevo velocità solo quando il pendio era ripido, cadevo dopo pochi metri. Tanta fatica per risalire. So che vi siete calati nel contesto, avrete intuito che dopo dieci minuti i piedi erano di ghiaccio, le mani paonazze, i guanti bagnati, le guance (che allora erano in carne) rossovivo, le ginocchia dolenti, una gran voglia di tornarmene a casa, il faticoso rientro, passi mesti e disillusi. Quella stessa via, percorsa all’andata con il fuoco sacro di un’attesa di gioia, pareva ora un lungo Golgota infantile, attraversato nel pianto trattenuto, pianto interiore, e poi sbloccato, lacrime calde sopra un volto affranto. L’infanzia conosce gli estremi, non ha imparato l’arte di parare i colpi.
Sta smettendo di nevica e io fra poco morirò. Non so, giorni, forse mesi, forse domani. Sto ultimando la mia esistenza. Vorrei ricominciare tutto da capo. Perché allora la grande ferita, lo smacco erano sanati da un abbraccio di mamma e da una cioccolata calda.

Ci sarà, per me, domani, l’abbraccio di Dio?

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