mercoledì 14 gennaio 2015

L'alpino di carta

                                                                                              foto carlozanzi

Continuo il mercoledì letterario del blog con questo racconto di mio cugino Pierluigi Tamborini detto Pier, già giornalista al Gazzettino di Treviso (ora felicemente pensionato), narratore. E' da poco uscito il suo ultimo romanzo 'Hotel Praga'. Con questo racconto ha recentemente partecipato, con soddisfazione, al premio letterario 'Parole attorno al fuoco', uno fra i premi letterari italiani più prestigiosi. Sarebbe per me troppo facile dire che scrive bene. Lascio a ciascuno di voi il giudizio.  




L'ALPINO DI CARTA
di Pierluigi Tamborini



Neve dappertutto. Ne è venuta giù tanta in questi giorni da far paura anche a chi ci è abituato, bufera d’altri tempi, ma per fortuna adesso splende un sole che sembra un coltello per gli occhi, tanto è forte il riverbero, crudo anche nella sua dolcezza. L’inverno ammonisce, non sa e non può perdonare.
Da queste parti i mezzi per la pulizia delle strade sono una benedizione di Dio e c’è gente che sa come muoversi per non rimanere isolata dal resto della civiltà, anche se forse la vera benedizione sarebbe di dimenticarselo il mondo di sotto.
“Con quel fuoristrada può andare dappertutto o quasi”, mi dice l’uomo che ho fermato sulla via per chiedere informazioni. “Deve proseguire oltre il paese e andare avanti, non può sbagliare. Tra un paio di chilometri sulla sinistra c’è la vecchia strada militare. La prenda e arriverà fino a là”.
Mi indica con la mano il profilo della montagna. Più su, in lontananza, la sagoma di un rifugio accucciato contro il dorso di un gigante. Anche se ancora non ci credo è quella la mia meta, il luogo per il quale sto macinando chilometri come grani di rosario da stamattina, rosario e maledizioni verso me stesso che me la sono andata a cercare.
“Guardi però che l’ultimo tratto se lo deve fare a piedi, saranno almeno un paio di chilometri”.
Sospiro. Ma chi me lo fa fare di andare alla ricerca di un matto che forse non mi vorrà nemmeno parlare. E poi ci mancava anche questo montanaro che non mi vuole più mollare, forse non è abituato ad incontrare gente e vuole fare conversazione a tutti i costi. Ma che ci sarà tanto da dire, ho chiesto soltanto un’indicazione, non la storia della sua vita o di questo paese dimenticato da Dio e dagli uomini. Sto pensando a come liberarmene senza sembrare scortese. Ma non è facile, è già partito con una serie di domande. Eppure se qui c’è qualcuno che deve fare domande quello sono io.
“Non è che per caso è un giornalista?”
“Perché me lo chiede?”
“Per farle risparmiare tempo. Se è uno della stampa può anche girare la sua bella macchina e tornare a valle, quel selvatico non la riceverà”.
“Sta parlando di Oscar Manfroi?”
“E di chi se no? Oscar l’eroe, adesso lo chiamano tutti così, ma guardi che è tosto, gli ultimi che sono andati su per avere un’intervista hanno dovuto battere in ritirata di corsa. Pare che abbia anche tirato fuori il fucile e li abbia minacciati e se dice che spara quello è capace di farlo sul serio”.
“Mi riceverà, stia tranquillo, e senza tirare fuori armi”.
“Lei non lo conosce, da una parte è mezzo matto e dall’altra pure”.
“E qui si sbaglia, lo conosco e come. Non lo vedo da quasi quarant’anni, ma lo conosco bene.”
Lo lascio lì con la bocca aperta che sta considerando le mie ultime parole, si vede chiaramente che lo hanno spiazzato e questo mi concede il tempo necessario per ringraziare e sparire.
Buon Dio, se da questa parti sono tutti così è meglio davvero che me ne torni con la coda tra le gambe dal mio direttore a dirgli che mi sono sbagliato, che non c’è niente da fare e che l’eroe non vuole parlare.
Sono passati quasi quindici giorni. Oscar Manfroi, 59 anni, gestore del rifugio che sto cercando di raggiungere, fino ad un paio di settimane fa non era altro che un filo d’erba in una prateria di sconosciuti, destinato a vivere e morire tra l’indifferenza dell’intero pianeta. Ma le strade della notorietà sono quasi infinite e così può capitare che una domenica di gennaio una comitiva di turisti riesca a raggiungere il rifugio per passare una giornata sulla neve. Può capitare che un bambino di dieci anni e la sorellina di sette si siano alzati quella mattina con la sindrome del grande esploratore, diventino piccoli signori degli inganni ed eludano la sorveglianza dei genitori. Può capitare che il richiamo del bosco coperto di neve sia tanto forte da fare dimenticare la prudenza ed il pericolo vestito da crepaccio che si nasconde al riparo di un sole invitante. Nel pomeriggio una tempesta di neve svela la trama di quella che sta per diventare una tragedia annunciata e l’elicottero dei soccorsi deve restare a terra perché così ha deciso l’inverno.
A sera nevica ancora e ogni fiocco che scende è già quasi una sentenza, la temperatura continua la sua scalata verso il basso e l’unica parola che sembra avere un senso in quel momento è miracolo. Forse in un frangente come questo, pensano tutti, ci serve un eroe. E l’eroe e lì, soltanto che non sa ancora di esserlo o non ha nemmeno il modo e la voglia di pensarci. Il tempo di prendere due coperte, vestirsi di tutto punto e lasciare l’intera compagnia con una promessa, tornerò indietro e non sarò solo perché i bambini saranno con me. Sani e salvi. E così ha fatto, andando incontro al bianco della neve e al nero della notte, seguendo tracce che sono già state cancellate ma che lui si è impresso nella memoria come il ritornello di una canzone prepotente, li ha rintracciati, abbracciati, tremanti e piangenti in mezzo al bosco e alla tormenta e insieme a loro ha trovato rifugio in una grotta, la stessa che ha scoperto in un tempo consegnato alla dimenticanza. Nell’antro oscuro li ha scaldati con le coperte e con il proprio corpo passando la notte rivestendoli anche con il calore di parole amiche. La mattina dopo il sole ha avuto il sopravvento ed i soccorritori li hanno trovati mezzo congelati ma, grazie a Dio, ancora vivi.
La stampa ci è andata a nozze, ma le uniche interviste che sono state fatte hanno inondato di lacrime di ringraziamento le pagine e le televisioni, in altre parole il pianto liberatorio dei genitori dei piccoli, mentre lui, l’eroe, ha tenuto lontano tutti sia all’ospedale che dopo, quando è tornato al rifugio senza dare spiegazioni nemmeno ai compaesani, che del resto sono abituati all’orco che abita sopra di loro.
Fin qui la cronaca, ma adesso ci sono io qua, che sto tentando di arrivare ad un traguardo che gli altri non hanno nemmeno sfiorato. Perché dovrebbe parlare con me? Per quella che quarant’anni fa non era nemmeno un’amicizia? Forse non si ricorderà più dei vecchi tempi in Alto Adige, della prima volta che ci siamo visti, io che lo guardavo con il timore di chi sta prendendo lentamente coscienza di essersi cacciato in un girone infernale e lui, con il braccio alzato a chiedere il silenzio.
Quel braccio alzato me lo ricordo ancora oggi, sembrava messo lì come a dividere le acque tra il coraggio e la paura, soprattutto la paura di altri che lo guardavano con il timore ed il rispetto che meritava quel piccolo baffo nero che portava sulle maniche, quando sia io che lui avevamo in testa un cappello con una piuma e ci facevamo chiamare alpini.
Venivamo dal Centro addestramento reclute di Albenga, non sapevamo quello che ci aspettava a Vipiteno, oltre al freddo dell’inverno. Noi no, ma gli altri sì, i “nonni” ci stavano aspettando e avevano preparato per noi un comitato di accoglienza che ben presto avremmo imparato a conoscere.
Oscar era il re della sua camerata e ci accolse con un ghigno feroce. Squadrò i nuovi arrivati che si erano improvvisamente fatti silenziosi, li valutò con la calma di chi sa di essere il più forte, poi si concentrò su un tipo grande e grosso quasi quanto lui.
“Vien qua ti, mona”, gli disse e poi “Nome e cognome”. L’altro, più che intimidito sembrava frastornato ma ebbe l’accortezza di abbozzare. “Cavinato Amedeo da Rosolina Rovigo” disse, al che Oscar lo valutò con un’occhiata sprezzante e poi disse: “Benvenuto Cavinato Amedeo da Rosolina Rovigo, io sono Manfroi Oscar da Rivamonte Belluno, ma soprattutto sono quello che comanda. Mettitelo subito in testa tu e tutti voi che siete qua dentro”.
Amedeo si guardava intorno sempre più spaesato. Forse pensava alla sua terra di pianura, relegata tra l’Adige e il mare, al raccolto, ai mercati che frequentava tutti i giorni con i suoi per vendere i prodotti, a come diavolo aveva fatto a cacciarsi in un tale guaio. Ma non era il solo a pensarlo, io provavo le stesse cose in attesa dell’interrogatorio che presto sarebbe arrivato.
Non so perché ma con me fu stranamente gentile. Non appena ebbe saputo del lavoro che avevo cominciato a fare come collaboratore in un giornale di provincia mi soprannominò “L’alpino di carta” e quello fu il mio nome per il resto della naja.
Non fu un periodo facile, almeno all’inizio. Ci avevano chiaramente detto che noi saremmo stati gli schiavi dei “nonni” almeno per tre mesi, finchè non sarebbe arrivato il nuovo contingente. Soltanto allora avremmo salito un breve gradino della scala gerarchica diventando semplici servi, in attesa di passare anche noi nel novero di quelli che possono permettersi di comandare.
Oscar forse mi aveva preso in simpatia, mi evitò umiliazioni come il juke box o il cucù che altre “spine” come me erano costrette a fare cantando canzoni a richiesta o scandendo le ore dalla cima dell’armadietto per il sollazzo di quei farabutti. Gli unici scherzi che non mi furono evitati avvenivano nel cuore della notte con la richiesta, ad esempio, delle chiavi del carrarmato, che mi lasciavano confuso mentre loro se la ridevano nascosti nelle brande.
Che tempi. Sto pensando a tutto questo e così ho raggiunto a piedi l’ingresso del rifugio. Non mi sono preparato nessun discorso, spero che si ricordi di me e che mi dica qualcosa di interessante sulla sua disavventura. Di certo non mi aspetto il tipo magro e mingherlino che mi accoglie all’ingresso con aria interrogativa. Non faccio nemmeno in tempo a formulare la domanda che l’altro ha già capito tutto, chi sono e che cosa ci faccio lì.
“Oscar –lo sento dire rivolto all’interno- c’è qua un altro di quelli”.
“Mandalo in mona”, la risposta che arriva.
Non mi resta che giocare il jolly: “Oscar, sono io, l’alpino di carta”.
Passano pochi secondi, ma mi sembrano un’eternità, poi dal buio dell’interno sbuca la sagoma poderosa di Oscar. Il tempo con lui è stato gentile, la chioma nera è diventata bianca, ma non dimostra gli anni che ha, mentre io mi rendo conto che i miei mi pesano addosso come una zavorra insostenibile. Il ghigno di Oscar è lo stesso di quando mi aveva accolto in Alto Adige, lo stesso il braccio levato a dividere le acque. Mi aspetto qualunque cosa ma riesce a sorprendermi ancora una volta. Mi sarei aspettato di tutto, non quello che mi dice: “L’alpino di carta, guarda, guarda, sei proprio tu. Ma sei uscito di corsa di casa stamane perché ti sei dimenticato tutti i capelli”.
Non ci credo, sta ridendo e forse azzarderà anche un abbraccio. Non pretendo tanto, l’importante è avere rotto il ghiaccio. Ghiaccio che torna con le sue parole. “Hai fatto tanta strada per venire fin qua, ma è tutta sprecata, non ti dirò niente”. Poi aggiunge: “O meglio, potrei raccontarti tante cose, ma mi devi promettere, parola di alpino, che non scriverai una riga”.
Mi ha fregato. Che posso fare ora, conteso fra l’onore e la mia professione che mi spinge, ma parola è parola. Non scriverò nulla, ma almeno capirò perché non vuole parlare.
“Tu vorresti sapere di quei bambini e del perché sono andato a salvarli. Ma che dovevo fare secondo te, lasciarli lì a morire? Questa è la mia montagna, sono io il responsabile di questi posti. Fosse stato un adulto forse non avrei rischiato la mia vita per la sua, ma i bambini sono innocenti. Capisci questa parola? Innocenti.”
“Questo lo capisco perfettamente, quello che non mi è chiaro è perché non raccontare la tua storia a tutti, in fondo c’è tanta gente che vorrebbe ringraziarti”.
“Eccolo lì il punto, non voglio essere ringraziato, basta soltanto che mi rispettino e rispettino la mia decisione.”
Ci siamo. Oscar mi sta parlando di suo nonno ed è un racconto che mi trasporta, nel silenzio del rifugio, in un altro silenzio ben più terribile, neve e freddo, un mondo bianco, una trappola di morte.
La ritirata di Russia.
“Era partito con la baldanza dei suoi vent’anni, gli avevano raccontato un sacco di storie fasulle, sembrava che l’Armir, senti come suona bene questa parola, andasse a caccia dei comunisti come ad una festa. Ma la festa gliel’hanno fatta loro, e che festa. Lui era con la Tridentina il giorno della battaglia di Nikolajewka. Da lì è cominciato il calvario del ritorno. Erano in più di ventimila quando hanno cominciato a tornare indietro e ogni giorno lasciavano sulla neve decine e decine di cadaveri. Mio nonno si è trascinato avanti con la forza della disperazione, con i denti, lasciando in sacrificio alla Santa Madre Russia due dita dei piedi ed altrettante di una mano. Quante storie mi ha raccontato di quei mesi terribili, storie che nemmeno ti potresti immaginare e che preferisco non ricordare. Lui era uno delle migliaia di gavette di ghiaccio che ha percorso l’inferno per tornare a casa. E quando a casa ci è arrivato sai che cosa è successo? C’era anche lui al Brennero sul treno per l’Italia, anche lui voleva aprire il finestrino e guardare fuori la patria che tornava. Gli è stato impedito e quando ha chiesto il perché gli hanno detto che era conciato da fare schifo e non sarebbe stato bello far vedere un soldato italiano in quelle condizioni. Hai capito adesso? Lui non voleva essere ringraziato per quello che aveva fatto, voleva soltanto un po’ di rispetto. Non mi aspetto che tu comprenda appieno le ragioni della mia scelta, ma se ci pensi bene forse arriverai alle mie stesse conclusioni. Ho fatto soltanto quanto mi sentivo di fare, quello che era giusto. E la cosa finisce qui”.
Resta a lungo in silenzio mentre dentro di me si agita un mare di sentimenti, ma dopo quanto ho sentito mi sarà più facile mantenere la mia parola, anche se ne verrebbe fuori una bellissima storia. Meglio che me ne vada prima di cadere in tentazione. Intanto Oscar ha ritrovato la voce e la sua gentile ruvidezza. “Dai, adesso fermati a mangiare qualcosa con noi, poi vai fuori dai marroni”.
Più tardi, mentre mi sto allontanando dopo avere preso congedo mi rincorre gridando: “ E al tuo direttore che cosa racconterai?”
“Che c’era troppa neve e non sono riuscito ad arrivare fin qua, forse con il disgelo…”
Già, e intanto passeranno almeno due mesi e la storia di Oscar sarà stata scavalcata da altre e così non se ne farà più nulla. Meglio per tutti, penso, mentre guardo il cielo che ha cambiato colore preannunciando l’arrivo di una nuova neve. Meglio sbrigarsi, il mondo più giù mi sta aspettando.

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