lunedì 28 luglio 2014

L'erba di Redipuglia

                                                                                             foto carlozanzi


Oggi, anniversario dell'inizio della Prima Guerra Mondiale, ripropongo questo racconto breve, scritto nell'agosto del 2013, dopo la visita al sacrario di Redipuglia


L’erba di Redipuglia
di carlozanzi

Arrivo in auto dalla bella Trieste, svolto a sinistra, nemmeno mi accorgo che sulla destra il Monte Sei Busi è fertile di una morte eroica. Ampio parcheggio, lascio la vettura e mi dirigo verso il Colle Sant’Elia, un grosso foruncolo verde dove scorgo mortai, obici e altri strumenti di morte, datati primi del Novecento. Sulla sommità una colonna, in basso le mie gambe che tremano di fronte a tanto dolore immaginato, gratitudine per il dono della memoria.
Tutto s’infiamma sotto un sole d’agosto, impossibile da sopportare. Mi sono fatto l’idea che i centomila siano lì, ma il Sant’Elia mi pare una cocuzzolo di basso profilo. Non so perché mi giro verso la spianata dove corre l’Isonzo. Mi volto e vedo. Davanti a me il Monte Sei Busi è bianco di marmo come le Alpi Apuane. Sulla cima tre croci, alla base due italici vessilli su alto pennone che sonnecchiano nell’afa. Leggo un cartello è comprendo: prima i trentamila erano sul Sant’Elia, poi sono diventati centomila e li hanno messi a riposo eterno sul Sei Busi.
Torno al posteggio, attraverso la via d’asfalto e sono su quella terra sacra. Non ci credo che lì, esattamente lì c’è stata guerra, uomini si sono affrontati e ammazzati, il dolore si è sprecato, il sangue ha bagnato quel suolo che oggi calpesto. E vorrei farlo sulla punta dei piedi, come il grande Rudol’f  Nuriev.  
M’avvio verso la lunga scalinata, gli immensi gradoni. Sono ai margini. Ogni passo è una preghiera. Alla mia destra la fila dei ‘presentepresentepresentepresente’, risposta all’appello in un tempo di morte obbligata. E sotto la scritta che s’allunga verso Aquileia i nomi, centomila nomi. E un nome –diobono- è una vita. Io so che valore può avere un cuore che batte e la paura tremenda che si fermi per sempre. Una vita, cioè il nostro tutto.
Ogni passo un requiem. Le cicale mi distraggono, mitragliate nel cielo che luccica, fastidiose e invisibili come nemici di un’altra trincea.
Sul lato sinistra del monte salgo io solo, sul lato destro non più di cinque turisti-pellegrini, al centro nessuno: sarà l’ora severa del mezzogiorno, sarà che la memoria evapora con le generazioni. Sarà che i centomila se ne sono andati per sempre? Diobono: no.
Arrivo a una spianata, ciuffi d’erba rinsecchita sono spuntati fra le crepe delle grandi piastrelle grigie. Segno d’incuria, e non mi sta bene. Mi inginocchio e mi metto a strappare le erbacce, prego e sradico la gramigna della dimenticanza. Le ginocchia mi fanno male quasi subito, mi rialzo, mi piego sulla schiena, continua il mio lavoro, il sole non mi aiuta, sudo, ho sete e la pietra mi sputa in faccia tutto il suo calore. Ma vado avanti. Mi scappa da ridere: posso chiamare sacrificio quel mio lavoro da contadino, di fronte a chi ha dato la vita?
Il sole lentamente plana verso il mare, quell’erba secca insolente non finisce mai, saranno forse centomila ciuffi d’erba? I capelli di quei poveri italiani, costretti ad essere eroi? Torno in ginocchio, la schiena mi duole, le dita si tagliano, compare qualche striatura di sangue, piccole gocce sopra la pietra. So che non ce la farò a ripulire tutto il sacrario, so che la dimenticanza è più forte di me, so che quell’erba appena sgozzata ricrescerà, ma lo stesso non mi ferma nemmeno la notte.
Gli ultimi fili d’erba li ho strappati con la bocca, sdraiato vicino a quei fratelli, che non hanno vissuto oltre il 1918. Ma infine il lavoro l’ho completato. Posso riposare in pace.
M’addormento quando l’alba è più di una promessa, quando il sole ricomincia a pulsare il suo fuoco.
Ora dormo vicino ad un tale, di nome Zanzi Francesco, soldato, 66° fanteria.



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