martedì 22 aprile 2014

Il racconto del mercoledì

                                                                                               foto watson



L’EREDITA’ DI CHARLOTTE
di carlozanzi

Un lampo. Un’apparizione. Lo striscione del traguardo divenne il grande schermo sul quale si materializzarono immagini di sedici anni prima. E così dopo duecentocinquantun chilometri di gara, trentaquattro salite, uno sforzo immane durato sei ore, venticinque minuti e cinquanta secondi, dopo essere scattato sul Cauberg nel giorno di Pasqua, venti aprile duemilaquattordici, in Belgio, proprio nell’attimo di alzare verso il cielo di Valkemburg la mano destra con il numero tre scritto con pollice, indice e medio (in effetti era la terza volta che vinceva quella gara ciclistica), mentre dietro gli occhiali da sole due occhi gonfi di fatica e commossi di lacrime guardavano straniti i fotografi, la linea d’arrivo, il pubblico berciante e la bocca disegnava un sorriso che pareva una smorfia, in quell’attimo esaltato, che precede la consacrazione alla Amstel Gold Race, il belga di Verviers Philippe Gilbert rivede sua zia Charlotte e quell’eredità benedetta. Perché da lì tutto aveva avuto inizio.
Era andata così. La vecchia zia Charlotte, zitella secca e sdentata, simpatica, che gli regalava le banane, era morta lasciando una modesta eredità anche alla sua famiglia. Papà Francois, amante della bici, che aveva fatto?  “Tutti in sella!” aveva imposto, e tutti e quattro erano saliti su vecchie bici rugginose, mentre la piccola Pauline era stata alloggiata sul seggiolino (malmesso anche quello) posto sulla bici del padre. La colonna si era avviata per le vie di Verviers, dove si parla francese e tutto sommato si vive in pace, sino al rivenditore di biciclette, tale monsieur Cervini, di origini italiane, amico di Francois Gilbert.
L’ereditiere allungò i quattrini e Cervini capì che faceva sul serio. “Dacci quattro bici nuove, queste rottamale, hanno fatto il loro tempo.”
Il piccolo Philippe, sei anni, veniva per età dopo Michel e prima di Yves e Pauline. E la colonna era così formata: avanti il capofamiglia con l’ultima nata, una biondina dagli occhi verdeacqua, a seguire mamma Irène, dietro alle sue gonne Yves, dietro a Yves Philippe, e ultimo Michel, che pedalava coi piedi piatti e di malavoglia.
Fu un lampo, un’apparizione che, unita al ricordo, durò sette secondi, perché il tempo finale di Gilbert nella Amstel Gold Race del duemilaquattordici fu di sei ore, venticinque minuti e cinquantasette secondi e dopo quei sette secondi, tagliato il traguardo (e qui cedo al linguaggio spiccio e scontato del giornalista), il corridore della BMC annegò nel tripudio. Ma in quei sette secondi rivide il soldi di Charlotte, riassaporò il sapore di quelle banane, riprovò la gioia nata dal luccichio delle bici nuovissime, risentì in faccia il vento tiepido che accompagnò il loro ritorno a casa, dopo l’affare, lungo le vie di Verviers, un’accogliente sera d’estate del millenovecentottantotto, quando i suoi piccoli piedi spingevano sui pedali e gareggiava col padre nello scatto finale prima di casa.
E Francois, per educarlo alla vita, non sempre lo lasciava vincere.



Rivendicando il diritto alla piena libertà di espressione, che consente di unire verità e finzione, comunico che l’unica cosa vera di questo racconto breve è il nome del vincitore dell’edizione 2014 della Amstel Gold Race e alcuni riferimenti geografici. Per il resto, ci ho dato dentro con l’immaginazione.

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