martedì 30 aprile 2013

Il racconto del mercoledì




Primo maggio

Ecco, ora si è addormentata. E russa debolmente. Abbiamo pranzato con abbondanza, è festa, primo maggio, venerdì. Ha detto: “Mi è venuto un sonno..” e si è sdraiata, pancia in su, sulla cassapanca. Non lo faceva da almeno vent’anni, direi anche venticinque. Fra un mese e mezzo, il quindici giugno, festeggeremo i nostri primi trentadue anni di matrimonio.
Russa e non mi disturba, anzi, mi sta simpatica: ecco la garanzia che il nostro matrimonio non è un fallimento. Non dico sia perfetto. Odio gli sposi attempati che rilasciano dichiarazione del tipo: “Ci amiamo più di allora.” Oppure: “Vedete come è bella mia sposa?” E magari ha settant’anni. Dichiarazioni troppo cinematografiche. Che ostentano una perfezione inesistente. Lei è più brutta oggi di allora, del resto lo sono anch’io, quindi siamo pari. E a volte non è affatto simpatica, ma perché? La vita è sempre simpatica? Il matrimonio è vita, e se si vuole farlo durare una vita bisogna inserirlo in quella casella: gioia e dolore, bellezza e bruttezza. Del resto l’abbiamo promesso davanti all’altare: buona e cattiva sorte.
Lei dorme, vorrei sdraiarmi al suo fianco, assaporare il suo profumo e sfiorarla qua e là, baciandola senza svegliarla, ma la cassapanca è ad un solo posto, mi viene la sonnolenza e quindi decido di fare quattro passi. Lascio un biglietto, piccolo, un cuore con scritto torno subito, baci e il mio nome.
Esco. E’ una tiepida giornata di maggio, poche nuvole e un vento sobrio. Pochi passi e sono sul sagrato della chiesa parrocchiale, mancano pochi minuti alle quindici, vedo una gran ressa, tanti giovani, non mi sembra una messa, escluderei un matrimonio, chi si sposa di venerdì primo maggio? Mi avvicino e chiedo lumi. E invece sì, giorno di nozze. Vista la chiesa, non direi matrimonio comunista. Attendo. Mi indicano gli sposi, due sposi. Come? Un matrimonio doppio? Mi rispondono di sì, sono amici, tutti e quattro, amici insieme ad altri amici, tanti, una gran festa per la comunità religiosa di giovani di quell’oratorio. Ne ho sentito parlare, ne parlano bene. Il tarlo della curiosità mi trattiene. Uno dei due sposi, quello con più capelli, guarda l’orologio, parla con l’altro, le spose tardano ma non c’è apprensione. Ripenso a lei, che russa in cucina, sulla cassapanca; ripenso alle nostre nozze, pioveva, forse è stata quella la nostra fortuna. Ecco due auto bianche, utilitarie, direi davvero modeste, ecco le spose, gli sposi le accolgono, sorrisi, applausi e mughetti, si entra in chiesa. Li seguo o non li seguo? Guardo l’ora, sono le quindici e venti, ma sì, entriamo. Tanto ho lasciato il biglietto per lei. Entro, tanta luce e tanta gente, la direttrice del coro ha i capelli corti, l’organista è molto giovane, e anche la corale, tutti ragazzi. E fa una certa impressione vedere due coppie. Guardo ancora l’ora. Vorrei andarmene ma un indefinibile collante mi trattiene lì. Gli sposi hanno lo stesso vestito: ‘Ecco, in questo non sono stati affatto originali’ penso. Inizia l’omelia. Il prete è un tipo direi in carne, con pochi capelli, parla lentamente. Legge la predica. “…Bernanos diceva – Trovare la propria gioia nella gioia di un altro: ecco il segreto della felicità -……” Riguardo l’orologio. Non vorrei essere motivo di una infelicità. Se si sveglia, mezza intontita, e non ci sono, magari ci resta male. Vorrei gioire un po’ della sua gioia, non avere un nuovo rimpianto, altre scortesie da farmi perdonare. E lei non perdona tanto facilmente. E allora via, è tempo di tornare a casa. Di solito non prego, ma regalo ai novelli sposi una padre nostro veloce mentre mi alzo, esco e saluto la compagnia con un segno di croce maldestro. Il sole quasi mi acceca. Penso che si potrebbe andare a fare una passeggiata, io e lei, no, non mano nella mano, lei dice che fa ridere una coppia matura mano nella mano, non sono più ragazzini, meglio il braccio intorno alle spalle.
Farò come desidera. E’ il mio segreto.

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