martedì 16 aprile 2013

Il racconto del mercoledì

                                                                                              foto carlozanzi





La magnolia

Voleva un miracolo, anche se non ci credeva. Aveva bisogno di un Dio ma non sapeva dove cercarlo. Uscì di casa che battevano i dodici rintocchi di metà giornata. Il soffitto del suo appartamento gli pesava in testa, l’aria dei suoi locali aveva un cattivo odore, i pensieri intossicati gli avvelenavano quel poco di felicità che con gran fatica cercava di mettersi dentro.
Uscì confidando nel sole, che illuminava una dolce giornata di primavera. Avrebbe potuto svoltare a destra, verso la chiesa, dove avrebbe però trovato altra ombra, silenzio, avanzi d’incenso e un inginocchiatoio, sopra il quale piegare la sua sofferenza. Avrebbe potuto svoltare a sinistra, verso un modesto spazio verde, un giardinetto pubblico con tre panchine, qualche albero, erba malcurata, un cestino per la spazzatura che traboccava di avanzi, escrementi di animali.
Mosse due passi a destra perché non gli andava di incontrare gente: era certo che in chiesa non ci sarebbe stato nessuno. Si fermò, guardò verso il giardino, gli sembrò sgombro da presenze umane, ci pensò, andò da quella parte. Solo allora si ricordò della magnolia. Fra le poche piante che salivano al cielo lì dentro, una era una magnolia. ‘Sarà fiorita?’ si domandò.
La trovò come sperava, aumentò il passo, arrivò subito ai suoi piedi, osservò che era al meglio: qualche fiore ancora in bocciolo, gli altri aperti ma non ancora sfioriti, quando i larghi petali cadono fra i sassi e vengono calpestati, perdendo tutto il loro fascino, come la neve non più intonsa.
Vicino al tronco della magnolia stava una panchina di legno, verniciata di verde scrostato, sporca di terra. Cercò in tasca un fazzoletto, la pulì, si sedette. Alzò lo sguardo nel cuore della pianta fiorita, un paracadute bianco e rosa, una doccia calda dal profumo delicatissimo. Il sole filtrava fra i fiori, non abbagliava, scaldava quel giusto che gli serviva per stare bene. Si sdraiò. Chiuse gli occhi. Cercò la posizione migliore per non sentir dolore, almeno quel dolore del corpo avrebbe potuto mitigarlo con la postura. Per il dolore dell’anima avrebbe pregato e sperato, ma sapeva che sarebbe stata una lotta ben più aspra.
Tutto il meglio della primavera lo abbracciò come una donna desiderata da sempre. Il bello della primavera lo avvolse e provò piacere. Aprì gli occhi, i fiori gli parvero uno sciame di farfalle allegre, poi fiocchi di neve colorata che restavano sospesi nell’aria. Il mondo aveva trovato una fetta di perfezione in quell’angusto giardinetto di cartacce e brutte copie della natura. Quella magnolia stava ritta sopra di lui, respirando uno stato di grazia che gli trasmetteva con generosità. Cominciò a credere al miracolo, al Dio della bellezza assoluta.
Richiuse gli occhi e cercò di addormentarsi.
Lo stato di dormiveglia quanto durò? Due minuti? Dieci? Si era addormentato? Stava sognando? Di certo avvertì un pizzicore alla guancia destra, un solletico non fastidioso che lo invogliò ad aprire gli occhi. Un lungo ramo si era piegato verso di lui e un grosso fiore si era posato sopra la sua guancia. Spaventato si tirò su, il fiore si allontanò, il ramo si mosse, lui restò inebetito, per il sonno e per il risveglio, per ciò che il risveglio gli aveva preparato. Immobile osservò il fiore, che lentamente tornò verso il suo viso e si adagiò sulla guancia.
Forse era un bacio.
Forse era un sogno.
Forse davvero, questa volta, era Dio.



Questo racconto breve è liberamente ispirato alla canzone ‘Il ciliegio’ di Angelo Branduardi 
    

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