martedì 15 gennaio 2013

Il racconto del mercoledì


Anticipo ad oggi il mio racconto del mercoledì perché questo racconto è meglio leggerlo mentre nevica...e domani, purtroppo, non nevicherà più.


Gennaio

Per chi arriva a Brinzio da Varese, se tiene sulla destra la chiesa e butta gli occhi sulla sinistra, oltre le poche, basse case del paese, non può fare a meno d’annegare nel verde. Estesi prati a balze, come un mare d’onde alte, si portano verso la scogliera che, nel caso di Brinzio, è fatta d’alberi, di boschi e infine di rocce, pietre sulla sommità del massiccio del Campo dei Fiori, visto nel suo versante nord. D’inverno il monte prealpino, per lunghi tratti del giorno, e senz’altro dal primissimo pomeriggio, nega al sole il gusto di indorare quello spreco d’erba. L’ombra scende lesta verso la chiesa, attardandosi a stendere il suo manto freddo sui boschi di fronte, che salgono ai Valicci.
Brinzio è fresca d’estate, fredda d’inverno. Se, a gennaio, in città piove, a Brinzio può nevicare. E se fiocca, su quei prati il tappeto di cristallo non si scioglie. Può resistere mesi, sin dopo febbraio. I residenti ne hanno fatto tesoro, hanno risolto a loro favore i lamenti dei freddolosi regalando una pista per lo sci da fondo agli amanti dei legni sottili. Se nevica, naturalmente. Perché la fiocca sa essere molto ricercata. Così è stato per una decina d’anni. Poi ci ha ripensato ed è tornata ad imbiancare i prati. Questa storia, che è poi la storia di tutti, è stata scritta da un anziano sciatore proprio il primo anno di fiocca, dopo tutto quel digiuno. Scritta con la vita. Per parte nostra ci abbiamo aggiunto solo il piacere di raccontarla.

***

Aveva gustato tutto quel candido ben di Dio dalla finestra al primo piano della sua casa di Brinzio. Ore ed ore ed ore di neve bella, soda, con poca acqua e molto ghiaccio, quieta e poi a tratti in sfarfallìo, rimestata dal vento.
Aveva atteso un giorno e una notte. E anche qualche ora al mattino, perché aveva imparato a pazientare. Aveva portato pazienza, ormai, ottantun anni. Aveva atteso che il piccolo gatto delle nevi gli spianasse la via, sui prati della pista da fondo. Non aveva voglia di regalare alla neve, sebbene tanto attesa, quelle energie per farsi da solo i binari necessari alla sua sciata, in perfetta, consolidata tecnica classica, cioè alternata, destra, sinistra, avanti indietro in parallelo, con le braccia a muoversi in sincronia con le gambe, movimento lungo, senza strappi, sfruttando al meglio la scarligàda.  Né s’era preoccupato di preparare per tempo gli attrezzi, sciolinandoli: una preparazione cavillosa e, non di rado, inefficace. S’era lasciato convincere a comprare sci di nuova generazione, già belli e pronti, una spruzzata poco prima di partire e via, tant l’è istèss, stessa cosa, gira e rigira. Se non meglio. Aveva comprato quegli sci rossi un paio d’anni prima, per curiosità e per propiziare abbondanti nevicate. Li aveva collaudati a Cunardo, dove la neve la sparavano coi cannoni.
Uscì che saranno state le dieci. Il sole rotolava sulla cresta del Campo dei Fiori, come una lenta palla su un terreno a buche e rialzi. Infilando gli sci e muovendo i primi scivolìi sentì dentro la vivacità di una vita giovane, e la domanda: “Ho più di ottant’anni ma, se sto così, perché dovrei morire?” Si immaginò eterno.
Dalle dieci alle tredici fu come si ricordava: un giro per scaldarsi, un altro per stancarsi, un terzo fatto di soste, di chiacchiere, di incontri con i paesani con gli sci ai piedi (tutti più giovani, oltre gli ottanta restava, da sciatore, lui solo). Poi, all’ora di pranzo, la pista divenne bianca coltre senza nessuno, salvo un ragazzino del locale Sci Club e un cane da slitta, in libera uscita dai recinti del vicino allevamento. Poi se ne andarono anche loro.
Avrebbe dovuto far rientro per il pranzo ma non aveva appetito e, più di tutto, conservava una gran voglia di sciare, quasi a voler risalire la china di tutti quegli anni persi, per via delle neve che non si staccava dal cielo. Così tirò dritto. E venne il quarto giro, e poi il quinto e subito appresso il sesto e il settimo e –miracolo- anziché affaticarsi si riposava, ogni tornata sulle sue balze e lungo i pendii, salita discesa e pianura era ristoro più che sofferenza, piacere intenso e non dolore.
La neve scintillava, trapuntata di diamanti. Gli sci procedevano in andamento alternato con una facilità e scioltezza di scivolamento che lo meravigliarono, ma non più di tanto, se è vero che ad ogni passaggio davanti alla casina dell’arrivo si sentiva come un bimbo, appena sceso in cortile, pronto a correr dietro al pallone.
E il sole, immobile, ad una spanna dalla sommità del Campo dei Fiori, pareva ignorare l’epilogo del tramonto.

***

Giosuè Piccinelli detto ‘il barba’ fu leccato e baciato dapprima da un cane da slitta, e quindi trovato senza vita dall’amico parente Luigi Vanini, lungo il pianoro della parte sommitale della pista da fondo del Brinzio, alle ore 13 e 15 del 10 gennaio 2002. Infarto, o forse infarto con ulteriori complicanze. Disposta l’autopsia, ed eseguita, dopo qualche giorno si seppe che infarto non c’era stato. Morto era morto. Non si sa di che. Probabilmente felice.



Il presente racconto è tratto dalla raccolta UNA CITTA' IN CORNICE (con foto di Carlo Meazza)  Macchione Editore  2004 

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